7 donne su 10 tornano al lavoro dopo il tumore al seno. “Ma molte sono costrette a cambiare mansione”
Il 40% delle donne che hanno avuto un tumore al seno ricomincia a lavorare a due mesi dalla diagnosi, soprattutto se svolge un lavoro d’ufficio. A due anni dalla malattia la percentuale si alza al 74%. Ma il 35% si sente discriminato. E se molte tornano alla stessa attività che svolgevano prima di assentarsi, altre preferirebbero invece ottenere, ma non sempre ci riescono, un part-time. E il 25% deve adattarsi a mansioni diverse.
Il reinserimento professionale dopo la malattia e altri argomenti di rilevante impatto psicosociale, come la sessualità, la possibilità di avere un figlio, un tempo relegati in secondo piano, sono stati affrontati durante il convegno “La vita oltre il cancro”, organizzato da AIOM Lombardia. Un’occasione di dibattito e di confronto non solo per gli oncologi, ma anche per gli psicologi, gli infermieri, le associazioni dei pazienti e, più in generale, i cittadini.
“Negli ultimi anni – ha spiegato Maria Rosa Strada dell’Oncologia e Riabilitazione oncologica della Fondazione Maugeri di Pavia, presidente del Convegno – abbiamo raggiunto importanti progressi in campo oncologico grazie alle terapie personalizzate che hanno consentito di ottenere un aumento significativo dell’aspettativa di vita e, in alcuni casi, di raggiungere una piena guarigione. Si aprono quindi nuove sfide, anche per l’oncologo”. Sia il paziente guarito che quello cronico, in cui le terapie riescono a controllare a lungo la malattia senza però eliminarla completamente, esprimono desideri legati a una vita “normale”.
“È aumentata la consapevolezza che la cura del paziente oncologico deve essere a tutto tondo – ha continuato Maria Rosa Strada -, rivolta cioè con uguale impegno sia agli aspetti di efficacia che a quelli di umanità e attenzione, riportando così una medicina oggi inevitabilmente tecnologica al livello di arte medica. Ad esempio, la sfera della sessualità rientra nei bisogni a volte inespressi, nel ‘non detto’, che il medico deve cercare di cogliere nel dialogo con il malato. E le problematiche della procreazione sono molto sentite soprattutto dai più giovani.
L’obiettivo centrale dell’oncologo è rappresentato ovviamente dalla piena risposta terapeutica, ma deve collaborare anche con altre figure, ad esempio con gli psicologi, per ciò che attiene alla sfera affettiva del malato. Senza dimenticare il ruolo svolto dalle associazioni dei pazienti, che in Lombardia sono particolarmente attive e più numerose che in altre Regioni”.